venerdì 24 gennaio 2014

CRISI - LA POVERTÀ CHE FA TENDENZA

La parola crisi deriva dal greco “crino”, ovvero discernere, scegliere, decidere. Che stiamo attraversando un periodo di crisi, e dunque di cambiamento, è noto. Che questo però sia un problema lo abbiamo stabilito noi, e lo abbiamo deciso linguisticamente. Il concetto di crisi ha infatti nel nostro linguaggio una evidente accezione drammatica; parlarne risulta impegnativo, scomodo, allarmante. Possiamo tuttavia sostituirlo con il concetto originario greco e definire così la nostra epoca un’epoca di scelte. Senza alterare la realtà delle cose possiamo focalizzarci su un aspetto differente: non stiamo attraversando un periodo di buio oltre il quale torneremo in terra piana. Stiamo ristrutturando gli elementi costitutivi del nostro modo di vivere, smantellando le parti inadatte e ricomponendo in modo creativo i tasselli rimanenti.

 Quest’opera di edilizia sociale innovativa non è né compito né occasione riservato a noi, nella storia. Interpretare in modo nuovo il vivere comune appartiene ad ogni epoca - se riconosciamo che ogni epoca è in evoluzione rispetto alla precedente. Non è allora una questione di sfortuna trovarci a vivere in questo tempo. La Storia si presenta sempre in nuove vesti. Scrive Adorno: la Storia “indica quel modo di comportamento tradizionale degli uomini caratterizzato dal fatto che in esso appare l’elemento qualitativamente nuovo”. Storia  come una tradizione-innovativa o una innovazione-tradizionale. In ogni caso la Storia si differenzia dalla Natura per il fatto che non è pura riproduzione di se stessa ma è “movimento che ottiene il proprio significato attraverso il nuovo che appare in esso”.

Ed ecco che anche noi ci adattiamo con fantasia al nuovo che ci appare incontro.

Tra chi si è guardato attorno forse qualcuno concorderà: c’è più tolleranza circa i pagamenti, siamo tutti in difficoltà e siamo meno sospettosi; non è di moda fare il pieno, cinque euro di benzina è la nuova tendenza; un’esperienza liberatoria è dire pubblicamente “non ho soldi!” e chi li ha rischia di risultare volgare; se una volta ci si vantava delle nuove scarpe da quattrocento euro, oggi mostrarle è da sboroni, cool è averne trovate in saldo a 40 euro;
fare la spesa è più veloce. Se qualche anno fa un carrello non bastava, ora si riempie appena- di sottomarche e si preferisce eventualmente tornare per i “ritocchini”, tanto alla cassa si fa presto; si vive meglio e più rilassati il rapporto con la banca, che può ben poco su un conto vuoto; ogni famiglia ha fatto proprio il proposito di far girare l’economia e chi ha nel portafoglio qualche banconota la investe subito nell’attività del parente rimasto a secco.


Chi non trovasse evidente questo nuovo trend della società fa parte di quella piccola cerchia, specie rara, che non si è  - forse ancora - trovata in alcuna di queste situazioni. Lascio ognuno libero di desiderare a quale cerchia appartenere (a livello di desiderio possiamo più di ciò che la dura realtà ci consente!). Ma siamo forse tutti d’accordo su chi, tra il sistemato pasciuto e il precario ingegnoso, abbia esercitato le proprie risorse e sviluppato l’acutezza necessarie per guidare il cambiamento. La sfida che esso ci offre è antidoto per contrastare la noia dell’eterno ritorno di stagioni sempre uguali.

“nella natura non accade nulla di nuovo sotto il sole, in tal senso il giuoco, pur multiforme, dei suoi fenomeni porta con sé una certa noia. Solo nei mutamenti che hanno luogo sul terreno spirituale nascono novità”[1]

Portatori sani di novità, all’opera!




[1] Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia.

venerdì 17 gennaio 2014

CONDANNATI A GODERE

Ho una domanda. Questa domanda non so se sia la domanda più in voga al giorno d’oggi, quella che riempie tolk-show e richiede interventi di sociologi e psicologi, oppure sia una domanda inusuale, soffocata dalle mode, le pubblicità, l’urgenza di problemi sociali come il lavoro, la casa e altro. Indipendentemente dal fatto che ci si sia già posti questa domanda o meno, eccola: l’uomo contemporaneo sa godere? L’uomo contemporaneo come lo descriviamo noi nei nostri discorsi, nei nostri desideri, nelle nostre rappresentazioni (cinematografiche-  culturali) sa godere? Se mettiamo a modello di riferimento il don Giovanni, capace di concedersi ogni piacere, senza remore morali, senza rinunce o divieti, è questo modello rappresentativo dell’ uomo di oggi? Detto altrimenti: l’uomo di oggi è un don Giovanni?


Se fosse invece vero che l’uomo della nostra epoca non sa più godere?

Questa prospettiva non sembra particolarmente azzeccata, di primo acchito. L’epoca del proibizionismo, del potere del pater familias, della dipendenza femminile, del costume sociale, l’abbiamo lasciata alle spalle da molto tempo, tanto che le ultime generazioni non l’hanno mai vissuta e quell’epoca “così bigotta” la conoscono per sentito dire. Oggi nessuno, o sempre meno persone, fanno “i moralisti”. Non a caso chi sostiene una visione rigorosa e regolamentata di vita è chiamato “moralista” e canta fuori dal coro, quando un tempo il coro cantava con lui.

Cosa è cambiato? Interrogando da profani la psicanalisi si potrebbe dire che Super io e Inconscio, fino a qualche tempo fa, rappresentavano chiaramente due voci: Il Super io indicava l’agire etico della società, le regole e la morale depositarie del divieto di godere. Il Super io come un grande occhio esterno che ti guarda e dice “no!” “non devi!”, “non si fa!”, giudicandoti ad ogni sgarro; l’Inconscio di contrasto era il luogo nascosto, taciuto e inconfessabile in cui si insinuavano i pensieri di piacerei illeciti e i desideri proibiti, condannati a venir ricacciati giù ad ogni loro tentativo di fare capolino. Violare un divieto morale richiedeva un atto di trasgressione e aveva come contropartita il senso di colpa.

Una lettura diversa di Super-Io e Inconscio è invece quella di Lacan, come suggerisce Žižek. Lacan sostiene che i ruoli siano esattamente invertiti. Dal momento in cui Dio è morto, ovvero è caduta la legge e con essa il divieto e il castigo, si inaugura l’epoca dell’ateismo e del nichilismo. Ora il Super Io impone il divieto di non godere. Il senso di colpa arriva non quando ci si abbandona al piacere, ma quando non si arriva a goderne, quando si perde un' occasione. Di conseguenza, quel Dio che si voleva morto è diventato il Dio Inconscio, un impulso sotterraneo che muove al pudore. Un freno, una remora che ci sussurra piano-troppo piano, e ci lascia- di tanto in tanto, incerti sul da farsi.
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Ecco che emerge il motivo della domanda se l’uomo di oggi sa ancora godere. Diventando un imperativo: Godi!, il godimento perde la sua libertà. La costrizione al godimento non ha nulla di diverso dalle precedenti norme “moraliste”. Crediamo di vivere in un’epoca dove tutto è lecito ma siamo invece immersi in una libertà fittizia. La società si aspetta da noi ciò il cui sottrarci suscita senso di colpa, frustrazione: “Non sono capace di divertirmi”. Non siamo liberi ma costretti al godimento e questo godimento, anche quando raggiunto, è sempre insoddisfacente perché il Super io ci spinge sempre ad un oltre. Da qui sono immaginabili le possibili derive sociali.

Che fine ha fatto allora il don Giovanni? Questo personaggio è capace di godimento perché ottiene soddisfazione ingegnandosi e rischiando. Il don Giovanni conquista. L’uomo contemporaneo colleziona. Inserisce in fila piaceri seriali, automatici.

“ma scusatemi, come volete essere un conquistatore in un territorio dove nessuno vi impedisce alcunché, dove ogni cosa è possibile e tutto è permesso?”

Questo è il nostro territorio. La domanda allora è: colleziono o conquisto?



domenica 5 gennaio 2014

Non c'è futuro senza perdono


Un mese fa moriva Nelson Mandela. Tante parole sono già state dette per ricordare questo uomo che senza dubbio ha segnato la storia del Sudafrica e non solo. Non voglio aggiungerne altre, ma mi è sembrato alquanto strano che tra tutte le parole che io ho sentito nessuna abbia fatto riferimento a quello che, dal mio punto di vista, è stato forse uno degli eventi più esemplari realizzati da Mandela e non solo.
Tutti sanno che Mandela è stato il primo presidente nero eletto democraticamente nel 1994 dopo quasi cinquant’anni di apartheid; che prima di poter essere eletto rimase in prigione per ventisette anni; che fu grazie a lui che il Sudafrica tornò ad essere un paese democratico e libero… Ma forse non tutti sanno quale strumento è stato utilizzato per permettere al Sudafrica di diventare quella nazione arcobaleno in cui una convivenza pacifica tra neri e bianchi fosse realmente e realisticamente possibile.

Come fare a ricostruire una nazione che fino al giorno precedente si nutriva di odi razziali e si fondava sulla segregazione e sullo scontro tra neri e bianchi? Come fare a gestire un passato intriso di sangue, di violenze, di morti, di diritti calpestati, di trasferimenti forzati, di scomparse misteriose? Come far ripartire una convivenza pacifica all’interno di una nazione divisa e dilaniata dall’odio?
Tutte queste risposte si trovano nel libro Non c’è futuro senza perdono[1] di Desmond Tutu, arcivescovo di Città del Capo, che aiutò il neo-presidente Mandela in quest’opera di ricostruzione.

Per fare i conti con il passato obbrobrioso che pesava sui cittadini sudafricani venne istituita la Truth and Reconciliation Commission, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. La filosofia che stava dietro questa commissione si fondava sul concetto di ubuntu, parola intraducibile nella nostra lingua che esprime il fatto che ciascun uomo è inserito in una rete di relazioni tale per cui la propria umanità è indissociabile dall’umanità dell’altro; quindi una diminuzione di umanità da parte di una persona all’interno della rete provoca una diminuzione di umanità nella rete stessa. In base a questo principio si scelse allora di percorrere una strada completamente diversa rispetto a quella punitiva tenuta nel processo di Norimberga, in cui le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale giudicarono i gerarchi nazisti; o a quella della rimozione e dell’oblio del passato. Il modello adottato dal Sudafrica fu quello che Tutu definisce “un compromesso tra il modello rappresentato dai processi di Norimberga e un’amnistia generale basata sulla rimozione della coscienza”. L’idea fondamentale fu allora quella di concedere l’amnistia in cambio della confessione completa dei crimini per cui veniva richiesta. Il perdono in cambio della verità.

Venne così offerta alla popolazione sudafricana la possibilità di far emergere la verità, di raccontare ciò che era accaduto in quegli anni terribili di divisioni e di violenze. Venne data ai carnefici la possibilità di chiedere perdono di fronte alla nazione dei reati di cui si erano macchiati, e alle vittime di raccontare ciò che avevano subito e chiedere per questo una riparazione che aveva il valore simbolico di ripristinare la loro dignità umana e civile calpestata per lunghi anni.

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha potuto toccare con mano gli abissi di depravazione e di male a cui l’uomo può giungere, ma al tempo stesso ha potuto verificare anche la grande disponibilità al perdono che alcune vittime avevano conservato, sperimentando così non solo la “banalità del male” ma anche la “banalità del bene”, che passa attraverso la gente comune. Questa testimonianza è stata fondamentale per il Sudafrica ed è ciò che ha permesso al popolo sudafricano di prendere in mano le redini del suo futuro e dare a se stesso la possibilità di ricominciare e di pensare ad una convivenza pacifica tra bianchi e neri.

La grande verità che la Commissione ha così visto rivelarsi sotto i suoi occhi è che l’uomo, se vuole, è capace di bene; c’è sicuramente una disponibilità a compiere il male, ma nonostante questo in Sudafrica si è riusciti a spezzare la spirale del negativo e a ripristinare una circolarità virtuosa che ha traghettato il paese fuori dalle spire dell’apartheid.


[1] D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001. 

sabato 4 gennaio 2014

FILOSOFIA E SCIENZA - RIFLESSIONE ITINERANTE

Poco tempo fa mi trovavo in pulmino con alcuni amici di ritorno da una giornata a Firenze. Chiacchierando chiacchierando per occupare il viaggio, ci siamo imbattuti in un discorso che mi ha sorpreso abbia tanto appassionato tutti noi. E’ stata la prima volta che così a lungo e approfonditamente ho confrontato la visione scientifica con quella filosofica in un discorso che coinvolgesse ingegneri, biologi, informatici e non solo filosofi  che, si direbbe, se la cantano e se la suonano tra loro.  Non è stato questo filosofare? Tornata a casa ho ripreso le mie letture e mi sono resa conto che quell’incontro itinerante mi aveva fornito gli strumenti per comprendere meglio ciò che stavo leggendo. A sua volta il caro Karl Jaspers[1], riletto con nuovi occhi, mi offre ora la possibilità di rispondere, o meglio di tematizzare con più cura, quei nodi emersi. Coloro che, come i viaggiatori del pulmino, nelle loro giornate si occupano di misurare, calcolare, osservare, possono forse trovare qui qualche s-punto di domanda.

Se parliamo di pensiero scientifico siamo sicuri di intenderci, ci riferiamo a conoscenze esatte, a sapere oggettivo, raggiunto con rigore metodico. Ciò che è scientifico è reale: così è. Se invece parliamo di pensiero filosofico ci accostiamo ad una molteplicità di definizioni e supposizioni: il pensiero filosofico è quello che indaga il senso della vita, oppure è un ragionamento astratto e non incisivo sulla realtà e la società, per altri è fantasticheria oppure esercizio di erudizione o ancora mentalità alternativa per tipi originali: il classico “prendila con filosofia!”.  Cominciamo con il dire che la filosofia ha il compito di cogliere la realtà nella sua dimensione originaria. Questa potrebbe sembrare una ambizione esagerata e un obiettivo inarrivabile. Eppure l’intento, sin dall’origine della filosofia, è proprio di conoscere la realtà nella sua autenticità.

Evidentemente nel tempo, lo sviluppo delle scienze ha dato maggiore specificità ai diversi ambiti del sapere e così le scienze empiriche,rispondendo in modo accurato a diverse domande che prima erano esclusive della filosofia, ne sono divenute referenti titolari. Ad esempio, se prima la filosofia si occupava del cosmo, ora è l’astronomia a farlo. Ed è un bene. Questo non impedisce la legittimità dell’allora filosofia ma evidenzia che la filosofia oggi deve essere altro. Essa infatti ha fallito quando, per un certo tempo, contagiata dai successi delle scoperte scientifiche e forse invidiosa per l’entusiasmo riservato ad esse, ha voluto assumere lo stesso modello di sapere e procedere con l’esattezza di quelle e adottare come oggetto di indagine la totalità empirica. Ecco il suo errore! Voler essere da un lato pensiero scientifico-obiettivo, dall’altro etico. La filosofia ha più volte provato questa unione divenendo ambigua: dire del senso con il rigore scientifico. Questo anche ai profani risulta assurdo. Ciò che si ottiene per questa via sono niente più che giochi concettuali. Questa filosofia genera insoddisfazione, per avere una conoscenza oggettiva della realtà meglio rivolgersi direttamente alla scienza.

Questa scienza Signora però non è la soluzione a tutti i nostri quesiti. Essa non può darci i criteri dell’agire,  non può fornirci le norme per come vivere una buona vita, a motivo dei suoi limiti, che è bene individuare:
La conoscenza scientifica delle cose non è, e non può essere, conoscenza dell’essere. La scienza si rivolge infatti sempre ad un oggetto particolare, è conoscenza determinata e in quanto tale non è rivolta all’essere stesso. Si tengano quindi validi di ogni ricerca i risultati, ma essi soltanto. Ogni concezione dell’uomo e dell’etica non è affar dello scienziato. Egli avrà certamente un orizzonte di valori e di criteri ma in quanto uomo, mai come scienziato; perché egli faccia ricerca rigorosa deve sospendere ogni giudizio. Da qui viene in seguito che la conoscenza scientifica non è in grado di dare alcuno scopo per la vita, non può guidare la vita. La scienza non può dare nemmeno alcuna risposta riguardante il suo proprio senso: il fatto che esista è basato su impulsi che non possono essere dimostrati scientificamente. Possiamo semplificare dicendo che la conoscenza scientifica impedisce che nella filosofia sia possibile la conoscenza obiettiva delle cose, che è invece propria della conoscenza metodicamente esatta; allo stesso tempo la chiarezza  filosofica è necessaria alla scienza per comprendere se stessa.

Chiariti i limiti della scienza e chiarito cosa non è la filosofia, cosa resta da indagare ad essa? Di cosa si occupa infine questo pensiero filosofico che non deve dire dell’essere in forma di unità oggettiva eppure dice dell’autenticità del reale? Fortunatamente la filosofia offre più spunti di riflessione e, sebbene più pensieri cadano sotto il nome comune di filosofia, non esiste un’unica risposta alla domanda “che cosa dice la filosofia?”. Semplicemente non esiste una filosofia..e quante teste pensano, tante sono le filosofie, anche se pochi poi esplicitano le loro riflessioni. Dunque per rispondere ci affidiamo ancora a Karl.

Jaspers ci propone due modi di porsi di fronte alla realtà. Il primo è quello tradizionale, della conoscenza che si basa sul rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Rapporto in cui il soggetto cerca di fissare e assolutizzare il dato conosciuto tramite le categorie dell’intelletto: far rientrare tutto in uno schema, dare un ordine. L’altro è quello della ragione: l’uomo è portato al superamento dell’oggetto, ad andare oltre la conoscenza oggettiva del reale. La ragione rivela che, nonostante il conoscere secondo intelletto non è da negare o disprezzare,  esso è da superare, oltrepassare. L’uomo è portato ad una “trasformazione”: nell’atto del conoscere scopre i limiti di tale conoscenza oggettiva e la problematizza, la pone in questione in quanto non capace di dare ragione del fondamento dell’uomo. “Rendere problematica questa assolutezza del conoscere vuol dire aprirsi alla trascendenza”. Vi è uno spazio della realtà che sfugge all’intelletto, che non si può conoscere. Questo spazio,  messo in luce dalla ragione, apre alla trascendenza. Questa trascendenza è a sua volta non definibile. Non è inscrivibile ad alcuna categoria. Segna il limite invalicabile della finitezza dell’uomo. E’ quell’essere che ci si fa incontro e che di volta in volta si fa espressione in un oggetto, ma il cui orizzonte resta sempre inarrivabile al nostro sguardo. Il mettere in luce questo limite è il comprendere. Se dell’intelletto è proprio il conoscere, della ragione lo è il comprendere. E per comprendere è necessario unire teoria e prassi, pensiero e azione trasformatrice, conoscenza e superamento, esperienza del limite.

Questo è l’altro pensiero di cui ha bisogno la filosofia, tutt’altro che un sistema della totalità. Se dunque restano aperte delle domande, se non si vede chiaramente il legame e la coerenza di più aspetti della realtà, è perché stiamo interrogando la realtà ad un livello superiore; significa che ci stiamo avvicinando al fondamento, a quella realtà autentica che resta sempre aldilà delle nostre possibilità di conoscenza ma di cui passo passo possiamo fare esperienza.  Con le parole dell’autore:

Il filosofare sospinge il pensiero fino a quel punto in cui il pensiero ha la possibilità di trasformarsi in esperienza della realtà stessa. Nel processo di tale pensiero provvisorio e preparatorio sperimento un qualche cosa che è più del pensiero. La metodica obiettivazione di tale pensare è la filosofia.”

Scienza e filosofia devono dunque separarsi nella consapevolezza del sostegno irrinunciabile che ognuna è per l’altra. Quale scienza potrebbe mai esserci senza un orizzonte di senso verso cui indagare? E quale rilevanza e inerenza storica potrebbe avere un pensiero filosofico privo della conoscenza del reale? Non c’è superamento se non c’è realtà da oltrepassare. Consapevoli che, nel far filosofia oggi, non si pretende di dimostrare: si può solo offrire uno spazio di riflessione ad alcuni pensieri fondamentali.



[1] Cito liberamente e implicitamente l’introduzione di Karl Jaspers in La filosofia dell’esistenza(1974).