Da cittadini democratici, non
toccateci la giustizia! Che essa sia il
fondamento delle nostre società non lo mettiamo in discussione, tanto che,
peggio vanno le cose e minore equità percepiamo, tanto più rispolveriamo la
nostra radicata (anche se talvolta dimenticata) credenza nell’ideale di
giustizia che percepiamo violato. Mi
sono però imbattuta in una riflessione di Paul Ricoeur che ha suscitato in me un
dubbio: è desiderabile una società giusta? Voglio subito chiarire che non
sto fomentando l’egoismo, né auspicando una società della legge del più forte,
mi chiedo però se la giustizia non saturi il comportamento umano, che invece è
ricco di sfumature, e di slanci. Ma partiamo con ordine.
Il concetto di giustizia può essere espresso dalla Regola d’Oro: fa agli altri quello che vorresti fosse
fatto a te. Comunemente accettato da pensatori politici, la Regola ha
origine nel comandamento di Gesù: ama il
prossimo tuo come te stesso. Di fronte a questo comandamento sorgono due
perplessità, la prima è immediata: come
posso amare a comando? Se l’amore è un sentimento e non una scelta della
ragione, come posso, anche volendo, suscitarlo in me? E come può Dio comandarlo
come fosse un dovere e non un sentimento spontaneo e originario? Sorge allora il nodo della questione, amore
e giustizia, come possono stare insieme?
La seconda perplessità segue a
ruota la prima: se l’amore è nel segno della gratuità, del “ama chi ama per
primo, senza attendersi nulla in cambio”, cosa sta a significare il che vorresti fosse fatto a te? Non è la logica del do ut des? Non si perde così del tutto l’amore a favore di una
logica di giustizia distributiva (a ciascuno il suo) che rende interessato ogni
atto dovuto all’altro, affinché anche a me torni la mia parte? Non si cade in
un individualismo sfrenato e subdolo, in quanto coronato da un falso alone di
giustizia? Ebbene sì, se non necessariamente, siamo ad alto rischio di
caduta.
Eppure..cominciamo a rispondere
al primo punto: il comando di amare non va letto nell’ottica di un imperativo
della legge “Ama!” come fosse il linguaggio del giudice. Amore e giustizia infatti hanno
linguaggi differenti. Se la giustizia è prosa, e il suo imperativo è legge,
l’amore è poetico, e il suo imperativo è supplica, appello, invito amoroso.
L’amore non argomenta, chiama. La giustizia argomenta, e distribuisce. Non c’è dunque un dovere di amare ma una
libera risposta ad un appello pressante, patetico, appassionato.
Per rispondere al secondo punto
dobbiamo fare un passo in più. È un’aggiunta che sembra confondere ancora di
più le acque. Come il Vangelo ci consegna la Regola d’Oro, così ci consegna il
Comandamento Nuovo. In esso ci viene
svelata un’altra faccia dell’amore: amate
i vostri nemici. I nostri nemici! E’ questa la giustizia a cui dobbiamo
aspirare? Dobbiamo mirare ad una società
che tollera, ama, i nemici? Dobbiamo trattare da pari chi ci fa un torto? Qui
il legame amore-giustizia si perde immediatamente. Siamo confusi. Forse non siamo pronti per questo tipo di
società, forse non la vogliamo proprio.
Ma ora ci è richiesto uno sforzo
in più: indaghiamo il significato di questo comando. Abbiamo visto che il rischio della regola d’oro è di
appiattire l’amore ad un giusto equilibrio di doni e ricompense. Accettando
come punto di arrivo il criterio della distribuzione proporzionale perdiamo il
pathos di chi dà perché ama per primo; perdiamo la gratuità dell’amore; perdiamo la bellezza di ricevere un dono
inatteso; perdiamo il piacere di fare un gesto non dovuto. Perdiamo insomma
l’amore nelle sue sfumature, nelle sue sorprese, nella sua spontaneità.
Non siamo però ancora convinti
che il nuovo metro di misura sia il comandamento Nuovo. Un conto è amare con intensità e generosità, un conto è scavalcare a
piè pari ogni logica di equità. Giustizia e amore sembrano davvero non poter stare insieme. Sorprendentemente
è a questo punto che troviamo la soluzione. Il loro legame è proprio stare in questa dialettica mai conciliabile.
Il comandamento Nuovo è il segno della sovrabbondanza dell’amore, della
grandezza dell’amore, che supera ogni criterio di regolamentazione umana. È la
sproporzione della capacità di amare sulla capacità di governare una società
giusta. Senza questa sovrabbondanza il criterio della giustizia si
appiattirebbe alla logica della distribuzione proporzionale: tanto dai tanto
ricevi. C’è ancora posto per l’amore in una società giusta? No, l’amore è
estromesso e sostituito dai calcoli distributivi. Contro questo appiattimento si rivolge allora la nuova faccia
dell’amore, che chiama ad amare i nemici. Ma il comando ad amare il prossimo
come se stessi non deve essere scavalcato, quanto superato.
Non si costituisce una società
giusta senza un amore autentico per il prossimo, senza un debito nei confronti
dell’altro ma questo amore non è possibile senza passare attraverso la
condivisa giustizia. La sovrabbondanza
non è amorale né immorale, ma sovra morale. Assume, fa propria, ascolta il
richiamo della giustizia per generare un di più e con questo di più è di monito
alla stessa giustizia perché non si riduca
a mero calcolo interessato. Ecco che una società giusta sarà desiderabile
solo se sarà allo stesso tempo più che giusta, se persisterà in essa la
dialettica delle inconciliabili.
Grazie Paul, noi ci proviamo.