Ieri sono stata invitata in una classe di quarta superiore
di un liceo della mia città per aiutare gli studenti, che si stanno preparando
per il Viaggio della Memoria, a riflettere e continuare la loro riflessione sul
tema della disabilità. Già, perché
quest’anno il Viaggio della memoria li porterà a Norimberga, luogo simbolo
della persecuzione nazista, da cui tutto è cominciato. Infatti, pochi sanno o
si ricordano che tale persecuzione ha avuto tra le prime vittime propri i
disabili: uomini, donne, ma soprattutto bambini considerate “vite indegne di
essere vissute” o peggio ancora nutzlose
Esser, mangiatori inutili. Per capire come e in che termini si è svolta
questa vicenda vi riamando alla lettura o alla visione dello spettacolo di
Marco Paolini Ausmerzen.
Dalle provocazioni che mi sono state lanciate dai ragazzi ho
ricavato alcune riflessioni che condivido anche qui, a partire da tre concetti:
quello di alterità, quello di unicità e quello di perfezione.
Con l’alterità si fa i conti tutti
i santissimi giorni. Ogni giorno ci scontriamo con l’alterità, che è tutto ciò
che non può essere ridotto all’io, a me. Altro è mia mamma che questa mattina
mi ha fatto trovare pronto il caffè come tutte le mattine perché anche se sono
grande rimango sempre e comunque la sua bambina; altro è il mio vicino di casa
che incrocio tutte le mattine sulle scale e che saluto di sfuggita; altro è il
mio vicino di banco con il suo tic nervoso e quello strano modo di accavallare
le gambe. Sono circondata da altro, da altri.
Tutti i giorni facciamo i conti con questa alterità, con questa irriducibilità degli altri a noi.
E questa alterità la si esperisce
soprattutto negli affetti: lottiamo, soffriamo, ci arrabbiamo perché l’altro,
chi amiamo – genitore, fratello, sorella, amico, morosa, moroso, marito, moglie
– non sono come noi li vorremmo, non rispondono pienamente e completamente ai
nostri desideri, non dicono quella cosa lì che noi volevamo sentirci dire
proprio in quel momento lì.
Fare i conti con l’alterità è
allora fare i conti con lo straniamento,
col dirsi “ma dove sono capitato?”, sono strano io o sono strani gli altri.
Fare i conti con l’alterità si accompagna spesso ad una sensazione di
disorientamento, di insicurezza: sono forse io che sbaglio? Avrò detto qualcosa
che non andava detto? Fatto qualcosa che non andava fatto?
L’alterità mette in crisi la nostra
identità, fa vacillare le nostre sicurezze, ci chiede un mettersi in gioco,
un’uscita da noi stessi, un incontro, uno sguardo su chi ci sta di fronte e ci
interroga.
E l’interrogazione sorge ancora più forte, ancora più urlata se l’altro
che ci sta davanti è ancora più altro dell’altro: se porta con sé
un’alterità ancora più difficile da guardare, su cui levare lo sguardo, ancora
più difficile da incontrare. Se chi ci
guarda è una persona disabile.
Questo suo essere ancora più altro
dell’altro, mette ancora più in crisi l’io, la sua identità. Le sue sicurezze
consolidate. E fa sorgere la domanda delle domande: perché? Perché? Perché?
Ma io non ho risposte per questa
domanda.
Però posso provare a rispondere ad
un’altra domanda che mi è stata posta, ovvero: quale posto occupano nell’esistenza le persone disabili?
E la risposta è
semplice anche se non immediata: lo
stesso che occupa ciascuno di noi!
Ognuno di noi occupa un posto che è unico, irripetibile. Nessuno di
noi può essere in alcun modo sostituito, cambiato con qualcun altro. Nessuno.
Ognuno di noi è unico! E l’unicità,
la nostra unicità deve, essere il
valore: è il nostro essere, il nostro
essere qui e adesso, il nostro esistere che ha valore. La nostra esistenza
particolare, unica, irripetibile.
Tutto ciò che abbiamo, le nostre
qualità, le nostre capacità non ci sarebbero se noi non esistessimo. Aristotele
parlava di sostanza e di attributi: ecco la nostra esistenza è la sostanza, il
fatto che ci siamo, che esistiamo, che abbiamo un nome e un cognome, il nostro
essere e il nostro esserci è la sostanza, tutto il resto – il nostro essere
sani, biondi, belli, alti, bassi, magri, grassi, veloci, lenti, coscienti,
consapevoli… – è attributo. Questo non significa che non ha valore, significa
solo che non è il fondamento su cui deve basarsi e misurarsi la dignità di una
vita.
Una vita è degna perché è vita. E ogni vita è degna perché è unica,
irripetibile, incommensurabile.
Non facile né evidente cogliere
questo concetto. È sicuramente molto più facile vedere il valore di una vita
nella sua efficienza, nel possesso di alcune qualità, nell’esercizio di alcune
capacità.
Ma se queste capacità, qualità,
efficienze non hanno un soggetto a cui appoggiarsi che senso hanno, dove vanno?
Non incontro la coscienza di Zeno
per strada, incontro Zeno.
Non incontro le abilità di Chiara,
incontro Chiara.
Non incontro la disabilità di
Marianna, incontro Marianna.
Incontro sempre un soggetto,
un’alterità, un unicum.
Il rischio altissimo poi di porre
il valore nell’avere e non nell’essere, nell’esercizio di alcune qualità e non
nel soggetto che può possederle è l’arbitrio.
Cioè che chiunque in qualunque momento della storia possa stabilire
arbitrariamente quali qualità hanno diritto di cittadinanza all’interno del
genere umano e quali invece no. Quali qualità attribuiscono dignità ad una
persona e quali invece no.
Il rischio è allora quello della
discriminazione, della ghettizzazione, della abolizione.
Se io non riconosco il valore nel soggetto in quanto tale ma lo
riconosco solo nell’esercizio di alcune qualità allora sto già correndo il
rischio della discriminazione.
Che poi è quello che di fatto è già
avvenuto e avviene ancora.
E per finire cito da un testo di un
romanzo che sto leggendo, si intitola Tempo
di imparare di Valeria Parrella e come si suol dire casca a fagiolo, perché
racconta la storia di questa mamma che deve imparare ad accettare la disabilità
del proprio bambino:
«Quale
canone dovettero inventarsi gli antichi, che stesse lì a fondare il normale, se
poi tutto ciò che ha saputo rivelare la normalità è stata la sua assenza? Una
Nike senza testa ma con le ali, una Venere senza le braccia, un Mosè sfregiato.
E il corpo di Frida Kahlo trapunto di ferro come fanno le stelle con il cielo.
In
questo stesso esatto senso io dico che tu con il tuo passo incerto, con il tuo
occhio sghembo, la parola tua attorcigliata, sei l’essenza del quadro».
Quale normalità dunque e quale perfezione?
Il rischio è quello di farsi
ammaliare da questa ricerca di perfezione. E dietro ogni ricerca di perfezione,
dietro ogni utopia di mondo perfetto c’è un disegno assolutistico, perché non
si può pensare di avere tutto perfettamente sotto controllo senza ricorrere
all’uso della violenza. Ogni dittatore in fondo è mosso da un’idea di
perfezione, basti pensare a quello che ha fatto appunto Hitler in nome di una
razza da lui considerata superiore.
Oggi soprattutto siamo
costantemente bombardati da messaggi pubblicitari, e non, che ci dicono che
solo chi è forte è vincente, chi è sano è vincente, chi è bello è vincente, chi
ha il fisico scolpito, chi guadagna molto, chi scala le vette del potere è vincente…
Nessuno ci parla mai dei nostri
limiti, delle nostre fragilità, delle nostre debolezze.
La nostra cultura ha plasmato un
modello di uomo che deve essere un superuomo, di una donna che deve essere
multitasking se no non è abbastanza fashion e cult…
Parlano a noi come se dovessimo essere immortali. Come se non si
dovesse morire mai, come se la malattia e il tempo della malattia non esistessero.
Ecco, forse non è il caso di
dimenticare che invece siamo mortali, siamo caduchi, siamo finiti. E nella nostra
finitezza c’è anche tutta la nostra fragilità, tutti i nostri limiti, tutte le
nostre difficoltà.
Neanche l’arte con la sua
aspirazione all’immortalità è riuscita a conservare intatte e perfette le sue
opere. Forse perché sono fatte da mani d’uomo? Come possiamo pensare noi di
conservarci per l’eternità? Non pensate che sia un po’ troppo ambizioso?
Quelle opere di cui ancora oggi ammiriamo la bellezza e il fascino ci
ricordano che anche noi siamo un po’ come loro: fragili, mancanti, imperfetti
nonostante il nostro anelito alla perfezione.
Nella disabilità tutto questo
emerge con più immediatezza, con più violenza, con più mistero…
Ma non è distogliendo gli occhi,
abbassando lo sguardo, passando oltre e tanto meno estirpando, abbattendo,
bruciando che possiamo allontanare da noi questa provocazione.
È quanto c’è di bello e di beffardo
nel mistero della vita. E prendere consapevolezza di questo mistero, di queste
domande a cui non sempre si riesce a dare una risposta è davvero una nuova
nascita. È
nascere due volte.