giovedì 21 novembre 2013

Scuola: Religione Universale

“L’obbligo della frequenza scolastica è un impedimento al diritto di apprendere”.

Io amo Ivan Illich.   Non si può non riconoscere che le sue affermazioni siano tutt’altro che provocatorie quanto rivelatrici. Troppo facile definirlo rivoluzionario o sovversivo e accantonare il suo pensiero come originale, fantasioso, fantastico. Più difficile è prenderlo sul serio e lasciarsi interrogare dalla sua capacità di visione, che lo fa essere un vedente tra i ciechi, che siamo noi.

Il tema dell’istruzione ci coinvolge tutti personalmente. Non solo tutti ne abbiamo avuto esperienza ma essa è diventata valore universale da tutelare e promuovere. Chi di noi non ha qualcosa da dire circa la scuola e il suo funzionamento? Riconosciamo questo fermento che riguarda l’istruzione? Da una parte c’è la tensione a voler perfezionare il servizio scolastico e ad aumentare la fruibilità di scuole e università in nome di un diritto allo studio, dall’altro il valore dello studio non viene riconosciuto se non viene attuato attraverso percorsi istituzionali. Il sospetto è che l’istruzione così fornita, e solo così avvalorata ed apprezzata, non sia un valore morale quanto una merce.

Se acuiamo la vista notiamo che la società globale, dal nord al sud del mondo, richiede una maturità fabbricata in serie: il valore dell’istruzione di un uomo è determinato dal numero di anni di scuola e dal costo delle scuole frequentate. Questo non solo produce un mercato che in quanto tale ha come obiettivo il guadagno economico invece che la promozione dell’apprendimento ma, in quanto mercato, esso è in se stesso insostenibile. La domanda sarà sempre al di sopra delle possibilità di offerta della Società.  Questa svalutazione dell’attività autonoma produce un bisogno, il bisogno di istruzione istituzionale, e il bisogno di istruzione genera il diritto all’istruzione. E non c’è diritto per il cittadino che non sia
dovere per lo Stato. Lo Stato ha il dovere di rispondere al bisogno di tutti i cittadini ad avere l’istruzione che chiedono.  Ma lo Stato non potrà mai fornire borse di studio, sussidi scolastici, insegnanti e quant’altro a tutti coloro che ne hanno bisogno.

Così la civiltà del progresso propone modelli inattuabili e genera innumerevoli frustrati. Se si ammette che è diritto di tutti lo studio, tanto da rendere obbligatorio un percorso scolastico, coloro che per motivi diversi non possono accedervi non solo restano privati di ciò che è considerato un diritto, ma la loro stessa condizione di svantaggiati arreca scandalo alla società (che si percepisce fallita nei suoi intenti) e genera mortificazione in quelle persone che, tagliate fuori dal sistema, si percepiscono fonte di scandalo. Quanto più si insiste sul diritto per tutti a una istruzione quanto più ci si scandalizza per quei casi di mancata istruzione, quanto più si umiliano questi casi.

“C’è la convinzione diffusa che il comportamento acquisito sotto gli occhi di un pedagogo abbia un valore speciale per l’allievo e costituisca uno speciale vantaggio per la società” e così  “la scuola, facendo abdicare gli uomini alla responsabilità del proprio sviluppo, ne conduce molti a una sorta di suicidio spirituale.” Ecco dove andiamo incontro potenziando un modello paternalistico. Se cerchiamo il consenso e l’approvazione del Padre, nelle veci dell’istituzione, per  avere conferma del valore del nostro sapere non diventeremo mai donne e uomini capaci di migliorare la società. Come è possibile migliorare ciò che ci è stato consegnato se se veniamo plasmati culturalmente da quella stessa struttura che vogliamo cambiare?

Spersonalizzare la responsabilità dell’educazione affidandola ad un ente, non solo produce il suicidio spirituale-intellettuale di massa- in quanto ogni apprendimento ha valore se è scelto personalmente in base agli interessi di ciascuno, ma disincentiva autentici rapporti umani. Non siamo più liberi di scegliere i nostri maestri, di avvicinarci a coloro che riconosciamo detentori di un sapere per divenirne discepoli, e non siamo più consapevoli del nostro specifico sapere che a nostra volta può essere disposizione di chi voglia riceverlo.
Sono convinta che una società che richieda meno “bollini” e più sapere non possa che fiorire. Potremmo finalmente mostrare il nostro valore, e non, come dice Illich, essere costretti ad esibire il nostro pedigree scolastico. Nella libertà e nell’autonomia sarebbe favorita una reale uguaglianza sociale.

Le riflessioni potrebbero moltiplicarsi. Voglio solo ringraziare questo meraviglioso pensatore per averci dato la possibilità di guardare alla realtà con speranza offrendoci con entusiasmo nuove prospettive per democrazie felici.
 “ E poiché una vita ricca di godimento è una vita di rapporti costantemente significativi con gli altri in un ambiente significativo, l’eguaglianza di godimento non può che tradursi in eguaglianza di educazione”.

lunedì 18 novembre 2013

NUOVO SOLSTIZIO


Vedo nuvole in viaggio
che hanno la forma delle cose che cambiano
mi viene un po’ di coraggio
se penso che le cose poi non rimangono mai
come sono all’inizio
2013, un nuovo solstizio
se non avessi voluto cambiare
oggi sarei allo stato minerale
(Estate, Jovanotti)

Un po' inflazionato come testo e forse anche come autore…però arriva e colpisce, nel segno! 
Nuovo solstizio, proprio così! Quanti ne abbiamo passati nella nostra vita, be' è ovvio che dipende dagli anni che si hanno, per quanto mi riguarda sono quasi 50 (aiuto, che impressione!!). Ma non voglio ragionare in termini astronomici, piuttosto metaforici. 
Il solstizio segna un cambiamento di tempo, segna l'inizio di una nuova stagione. Ecco, è così che mi sento all'inizio di una nuova stagione; alla vigilia di un cambiamento. 
I nostri tempi sono segnati dalle tappe significative della nostra vita: il giorno della nascita, il primo giorno di scuola elementare, e poi media e poi superiore, i diplomi, gli esami, la o le lauree, i matrimoni, proprio e quello degli altri, un incontro, la nascita dei figli, un nuovo lavoro, il primo lavoro, una malattia, l'esperienza della morte altrui, un successo a livello lavorativo e non…Sono tanti gli attimi, gli eventi che nella vita di ciascuno hanno segnato un nuovo solstizio, un cambiamento di ritmo, un tempo fondamentale da annotare sull'agenda o che comunque rimane impresso nei ricordi. 
La memoria, l'attenzione, l'attesa sono questi gli atteggiamenti fondamentali che Agostino riconosce propri dell'uomo e della sua esperienza del tempo. Agostino, il grande filosofo, che dice: "Che cos’è dunque il tempo? Quando nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so". 
Perché il tempo fugge, sfugge, difficilmente lo si può definire. Noi il tempo lo scandiamo attraverso  gli anni, i mesi, i giorni, le ore, i secoli e così via, eppure questo nostro tentativo di regolare il tempo, dandogli una forma, attribuendogli uno schema in cui inserirlo, non basta per capire e svelarne il contenuto, l'essenza.
E allora Agostino riporta il tempo alla dimensione dell'animo. È lì che noi viviamo il tempo, lo percepiamo. È per questo che difficilmente un'ora è uguale a tutte le altre ore, che a volte sembra che il tempo sfugga e altre che non passi mai; che il mio tempo non è uguale al tuo tempo, che ciò che è perso per te è stato guadagnato per me; che ciò che io attendo trepidante per te è già passato, che ciò che io ho già vissuto e serbo nella memoria per te è non è ancora. 
E viviamo incessantemente divisi tra ciò che è stato e ciò che sarà. Tra il nostro passato e il futuro che ci attende e a cui corriamo incontro sperando ma anche un po’ tremando. Sicuri di ciò che è stato, ma completamente all’oscuro di ciò che ci attende.
Il tempo si connota dunque anche attraverso sentimenti e stati d’animo. Per questo è così difficile parlarne, perchè dentro il tempo che viviamo, dentro il tempo che scorre ci siamo noi, tutti interi, con tutti i nostri problemi, ansie, gioie, con tutto il nostro essere. E il tempo che è stato in cui noi non eravamo e il tempo che sarà in cui noi non saremo più, avrà in sé tante altre storie, tanto altro essere.
Non c’è Storia senza storie, non c’è tempo senza essere (oh Heidegger!).
Ciascuno di noi scrive la propria storia, afferma il proprio essere nel tempo, che diventa inevitabilmente il suo tempo.

Quale sarà la prossima tappa? Come continuerà la nostra storia? Siamo autori e protagonisti insieme. Siamo essere nel tempo. 

martedì 5 novembre 2013

I sogni son desideri


«Il desiderare indica qualcosa, rinvia a qualcosa che sta davanti a noi e che non percepiamo ancora chiaramente. Contiene un presentimento e una anticipazione delle nostre aleatorie opportunità di vita migliore. I suoi paesaggi custodiscono il bisogno del dover-essere proprio nel cuore dell'essere, di cui anzi garantiscono paradossalmente la consistenza: "I desideri non fanno nulla, ma dipingono e conservano con particolare fedeltà ciò che dovrebbe essere fatto. La ragazza che vorrebbe sentirsi brillante e corteggiata, l'uomo che sogna di imprese future, sopportano la povertà o la quotidianità come una corteccia provvisoria"» (R. Bodei, Introduzione a Principio speranza di Bloch)


Io voglio, io vorrei….quante volte abbiamo iniziato una frase con il verbo volere? Quante volte abbiamo fatto l’elenco delle cose che ci mancano e che preferiremmo possedere per rendere la nostra vita un po’ più piena, facile, felice?

Ma poi questo volere è davvero un desiderare? Non si rischia di volere sempre di più e di desiderare sempre di meno?

Il desiderio è, sì, legato, come il volere, ad una mancanza, ma tale mancanza non ha contorni netti, non rimanda a qualcosa di materiale, il cui acquisto, il cui raggiungimento soddisfa e appaga, il desiderio è sempre proiettato verso un oltre, una trascendenza, di cui non si riescono a cogliere con precisione i confini, i tempi, i modi della sua realizzazione. È un anelito, un tendere verso, un aspirare. Un sognare.
È un presentimento, un’anticipazione, appunto. Un mancare che però non si sa bene in cosa consista. Ha qualcosa di aleatorio, di struggente, quasi – paradossalmente – di nostalgico.


Il desiderio è anche ciò che permette, come dice Bloch, di rendere la nostra quotidianità, fatta di fatiche, di sofferenza e di provvisorietà, un po’ più sopportabile, perché permette di conservare la speranza che un futuro migliore è possibile, che ciò che si sta vivendo non è assoluto, né tanto meno definitivo. Che le cose possono ancora cambiare, e in meglio. Che la vita può riservare ancora tante sorprese, che non è ancora il tempo di dire “basta”, perché ciò che basta alla fine non basta mai.
Il desiderio contiene in sé una promessa, una speranza, magari anche un’illusione, un disincanto. Non tutto ciò che si desidera risulta essere possibile, ma proprio qui sta il bello! Il desiderare, infatti, porta a scavalcare la realtà, porta a sognare ad occhi aperti. A non smetter di far progetti, di accumulare aspettative, di allungare la lista delle cose da fare, di riempire il cassetto dove teniamo chiusi i sogni.
I desideri alimentano allora la nostra quotidianità, ci spingono ad andare avanti, a non fermarci di fronte ad una giornata buia e grigia perché in fondo si spera che domani ci sia il sole!

Ecco perché trovo che sia spaventoso quanto noto una quasi totale mancanza di aspirazioni e di sogni negli adolescenti che mi circondano. Ma come è possibile, mi chiedo! Come si può vivere gli anni più proficui della propria vita, gli anni in cui si è pieni di energia e di forza, senza desideri, senza sogni, schiacciati solo sul presente, sull’immediatezza? Da dove nasce questa assenza di sogni, di aspirazioni?

C’è chi parla della nostra come l’epoca delle passioni tristi[1], mutuando questa espressione da Spinoza e attribuendola al nostro secolo, in cui sembrano dominare come sentimenti prevaricanti l’impotenza e la disgregazione di fronte ad un futuro che non viene percepito come un’occasione, ma come una minaccia. In cui la fan da padroni l’individualismo e l’economicismo, in cui tutto è merce e l’obiettivo principe di ogni tipo di attività è quello di vendere e quindi, al fine, guadagnare. In cui i legami familiari, sociali si sbriciolano, vanno a pezzi, perché ognuno è spinto da questa logica commerciale a pensare a sé. In cui ciò che veramente conta non è desiderare ma sopravvivere.

Come uscire da questa logica disgregante e controproducente?
Secondo gli autori occorre fare resistenza, scontrarsi e opporsi a questa logica recuperando la dimensione dei legami e della creatività, ricominciando a tessere relazioni, reti che permettano all’uomo di uscire dall’isolamento in cui lo costringe la società utilitaristica per riscoprirsi persona, fatta di molteplicità e di complessità, di fragilità, di limiti, di non-sapere…di desideri.





[1] M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2005.